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LE ULTIME ORE DELL’ABBAZIA DI MONTECASSINO

Atto unico in otto scene

Di Alfred de Grazia


© 2001 di Alfred de Grazia




 Nell’autunno del 1943, il quinto corpo d’armata americano, rinforzato da unità dell’ottavo corpo d’armata britannico, dal corpo di spedizione francese, da una divisione dell’India, da una neozelandese, da una brigata italiana e una divisione polacca, lanciò una serie di attacchi contro le unità tedesche che dominavano le alture di Montecassino, dove si trovava una delle più antiche e celeberrime abbazie. I comandi ed i governi alleati si impegnarono a non dirigere il fuoco contro l’abbazia e l’alto comando tedesco promise di non utilizzare la stessa per scopi militari. La tentazione di violare gli impegni assunti era grande, dato che il monte dominava la via Casilina, principale accesso verso l’Italia Centrale e l’ambito premio costituito dalla capitale, ora nelle mani di tedeschi e di collaboratori fascisti. La battaglia internazionale sul piano religioso e diplomatico intorno al monastero  procedeva da mesi e sarebbe continuata per anni a venire.

Il dramma si apre su di un mattino inoltrato di un giorno di gennaio nel 1944. Le due scene sono ambientate su di un’altura rocciosa su cui si aprono due profonde fenditure attraverso le quali gli attori vanno e vengono. Il passaggio è possibile anche dalla sinistra e dalla destra del palcoscenico. La luce del sole mattutino proietta ombre da nord-est. Il fuoco d’artiglieria (esplosioni e sibili) si sente quasi di continuo dall’inizio alla fine, tranne che per una pausa improvvisa quando entrano in azione dei bombardieri; in seguito le cannonate riprendono con intensità doppia fino alla fine della pièce.




PERSONAGGI:


Un tenente d’artiglieria americano, che osserva i tiri dell’artiglieria, media corporatura, parla con accento bostoniano. Veste mimetica e scarponi, tenuti in ordine ed ha una carabina e una pistola automatica nella fondina; binocolo e portamappe pendono dalla spalla.

Un caporale d’artiglieria americano, anch’egli impegnato nell’osservazione dei tiri d’artiglieria, alto, robusto, ordinatamente vestito e armato come il suo superiore.

Un sergente di fanteria americano della 36 Divisione, fisico squadrato, in disordine, con una mitraglietta semi-automatica.

Due soldati tedeschi della 44 divisione di fanteria appena catturati, con i vestiti imbrattati di sporco.

Un soldato marocchino francese dalla pelle scura, in disordine, armato di un fucile Garand con baionetta; porta l’uniforme americana e l’elmetto francese, ma anche l’abito tradizionale arabo ed ha un pugnale; è responsabile dei prigionieri.

I prigionieri sono a capo scoperto, gli altri portano gli elmetti.



SCENA PRIMA


Una portantina con sopra un soldato indiano in tenuta ed equipaggiamento britannici,  ferito, attraversa la scena dalla fenditura sinistra della roccia ed esce a destra; è portata da un soldato indiano zoppicante, con parecchie bende e da un compagno.

Il tenente ed il caporale escono dalla stessa fenditura a sinistra. Entrambi stanno guardando con i binocoli, mentre si fermano e si voltano indietro, si fermano e si voltano indietro, fino a che raggiungono il centro della scena.

Caporale (voltandosi verso il tenente e quindi il pubblico): Che differenza c’è, tenente, tra mille bombardieri e diecimila tonnellate di bombe?

Tenente: Non molta. In un caso o nell’altro si tratta della più grossa esplosione che un solo obiettivo abbia mai visto. Ma da chi l’ha sentita? E’ un segreto – no, è meglio che non me lo dica.

Caporale: Ecco, un altro colpo, guardi, alla finestra di sinistra del terzo piano, verso la fine, si può ancora vedere la polvere che ne esce.

Tenente: Vedo, vedo. E’ la ventinovesima finestra ad essere stata colpita almeno una volta, vale a dire una su otto. E tutto contro gli ordini.

Caporale: Per non parlare dei buchi nelle mura.

Tenente: Non c’è niente che si muova lì dentro. E allora perché sparano?

Caporale: Naturalmente se dentro c’è qualcuno, non starà alle finestre.

Tenente: Quel prigioniero m’ha detto che i preti ed i civili italiani sono nelle cantine. Tranne quelli che da sopra stanno portando sotto i pezzi di valore.

Caporale: E di tedeschi, tenente?

Tenente: Neanche uno. Ma non è così che la pensano al quartier generale. Stando a loro si riescono a vedere riflessi di elmetti e binocoli nemici nel sole pomeridiano, e ci sarebbero anche tiri di cecchini; secondo loro l’unico punto da cui osservare le nostre posizioni esterne è l’Abbazia, a meno che non lo si faccia dal terreno intorno, che però è sempre e costantemente sotto bombardamento.

Caporale: Gli artiglieri stanno diventando scemi a furia di mirare ai bersagli facili.

Tenente: Sì, lo so, e hanno anche più granate di quante riusciranno mai a sparare. Non vedono l’ora di rompere le righe. E scriverlo a casa.

Caporale: Sembra sempre più un ammutinamento.

Tenente: Allora, l’esercito vuole un rapporto. Ma che cosa dovrei metterci? Il monastero ha l’aspetto di un dannato mostro che sta dormendo lì da secoli. Alla luce del sole è magnifico, come le porte del paradiso. Alla luce della luna acquista un’aria dolce e sacra. Nelle mattine di nebbia sembra uno spettro spaventoso. Eppure che delitto sarebbe ucciderlo. Parrebbe quasi che sia egli a condurre la guerra, altro che gli eserciti. E’ come King Kong.

Caporale: Lei parla come un poeta, tenente.

 Tenente: Non importa. I fatti stanno nel rapporto.

Caporale: Dubito che crederanno ad una sola parola di quello che dice, tenente. L’abbazia è condannata, proprio come King Kong. Con gli attacchi dei caccia, ricorda? che sparano a King Kong aggrappato alla guglia dell’Empire State Building.

E allora?

A chi gliene importa?

Tenente: Bè, interessa a me, anche come cattolico, se si distrugge un’opera grandiosa dedicata a Dio. E ci sono un duecento preti e civili italiani intrappolati là dentro  – e se a qualcuno importa – ci si saranno nascoste madri, bambini piccoli, anziani, magari anche dei tedeschi, e forse persino dei nostri che han preso parte ai precedenti attacchi, quelli andati male.

Caporale: (Si volta verso la fenditura e guarda ancora una volta col binocolo.) E’ un edificio incredibile! Dicono che dentro ci sia una collezione di opere che vale milioni, senza prezzo, insostituibile.

Tenente: Possono dire quel che più gli piace, caporale, ma non fa differenza. Quando i giornali e la gente a casa diventano isterici per le vite dei nostri ragazzi americani – non c’è niente che tenga.

 

 Tenente: Dicono che sia il Papa a trattenere il Gen. Clarke dal dare l’ordine.

Caporale: Scommetto che i tedeschi vogliono che la distruggiamo noi. Li farebbe sembrare buoni, mentre noi faremmo la figura dei barbari americani, specialmente se muoiono duecento civili e monaci che cercavano rifugio.

Si sente un leggero ronzio.

Tenente : (Puntando.) Ecco arrivare di nuovo il velivolo di ricognizione. Probabilmente starà dicendo che il posto pullula di soldati nemici. Naturalmente i tedeschi se ne staranno trincerati nei terreni tutt’intorno al monastero.

A proposito dei pruriti dell’artiglieria, l’aviazione non vede l’ora di sganciare un po’ di bombe sull’obiettivo. Insieme al palazzo pontificio, dev’essere l’unico posto in Italia che non hanno ancora colpito.

Caporale: Ehi, guardi lì, Dio Santo, i nostri si son messi a sparare persino sui propri aerei.

 Tenente: Maledizione, è vero. Sono i nostri quelli lassù!

Caporale: Sparano da cani, dev’essere il 532°. Eccolo, Lucky Pierre.

Tenente: Sembra che si stiano convincendo l’uno con l’altro. Sta diventando una vera e propria isteria di massa. Ormai non provo neanche più a discuterne con qualcuno. Da quel che ho sentito, il generale Clarke non ha il fegato di fermarla, e nemmeno il generale Alexander. La palla adesso è in mano addirittura a Eisenhower, Churchill e Roosevelt. Il papa ed io ci rivolgiamo a Dio, ma Egli nemmeno sembra dire molto. "Vogliamo i fatti," dicono, ma non lo pensano davvero – i faatti, i faatti, i faatti, come direbbe mia moglie… diamine, chissà che cosa sta facendo in questo momento. (Ha un’aria triste.)

Caporale: (imbarazzato) Tenente, è vero che l’aviazione può distruggere qualsiasi roccaforte?

Tenente: E’ quello che dicono gli avieri. Certo, anche loro le sparano grosse. Ma dico, anche se riuscissero a radere al suolo Montecassino con l’aiuto dell’artiglieria, a che servirebbe? Il cumulo di detriti si trasformerebbe in una robusta linea di difesa che i tedeschi non tarderebbero a fare propria. E nessuno potrebbe rimproverarglielo.

Una volta fatto il danno, il valore sacro e vitale del posto svanisce.

Detto tra noi, questo non posso scriverlo nel rapporto. Non è un fatto. Non ancora. E’ una previsione.

Caporale: Devo andare ora, Tenente?

Tenente: Sì. Vada. Consegni al colonnello  Hoskins il mio rapporto e gli dica che gliene manderò un altro dopo che si sarà fatto scuro. Magari riesco a scorgere delle luci. Sarò qui al suo ritorno. Mi lasci una scatoletta di maiale e fagioli dov’è parcheggiata la jeep.

Tenga bene a mente queste rocce. Non si perda. Non voglio dover passare qui la notte. Ho come la sensazione che la fine di tutto questo sia a portata di mano.



SCENA SECONDA


(Il caporale esce da sinistra. Un momento dopo dalla fenditura destra escono due soldati prigionieri tedeschi, dall’aspetto stanco, il primo zoppicante ma in atteggiamento di sfida, il secondo spaventato e sotto shock, spinti in avanti da un soldato marocchino francese e tenuti al passo e rimbrottati da un sergente americano, adirato, che parla con accento del Texas.)

Sergente: (Perorando con urgenza.) Guarda qui, capisci? Francais, li prendo io al posto tuo, comprenay? Puoi tornare alla tua unità, o dove cazzo ti pare, comprenay. Porto io i prigionieri alla polizia militare. I tuoi problemi sono finiti.

Marocchino: (Scuotendo la testa, irrequieto, non capisce)

Sergente: (Con un tono furbo e suadente.)Su, dài, adesso. Problemi finiti. Prigionieri prendo io. Tu volere orecchie, tu prendere orecchie.

(Vede il tenente americano.)

Guardi un po’ qui, ‘sti figli di puttana, tenente. Dovrebbero fucilarli. Ci hanno sparato addosso per tutta la notte. Han fatto anche due morti, uno era mio amico. Me ne occupo io.

 Tenente: (Con fare distaccato, ma cortese.) Che cosa s’aspettava? Che le mandassero dei baci, forse? In guerra ci si spara uno contro l’altro. Non deve farne una questione personale.

Sergente: (Gli lancia uno sguardo arrabbiato e torna a rivolgersi al marocchino) Li prendo io. Adios, mesiò, vattene. Vuoi delle sigarette? Estrae due pacchetti di sigarette da una tasca laterale dei suoi calzoni, insieme a del denaro, e li dà al Marocchino, che accetta, con un ghigno. Vai ora, su! Vattene, non preoccuparti, no problem, li prendo io. Brandisce il suo fucile e lo agita verso il marocchino, che si rintana nella fenditura, ma torna a sbirciare per vedere cosa sta succedendo, prima di sparire.

Tenente: (Dapprima disorientato, poi reagisce.) Che diamine ha in mente, sergente? Che cosa crede di fare? Restituisca a quell’uomo i suoi prigionieri. (Ma il marocchino nel frattempo si è dileguato.)

Sergente: (con rabbia) Sono i miei prigionieri, adesso, tenente, e posso farci quello che voglio. Lei è dell’artiglieria, vero? Bè, questo è territorio della fanteria. Così stanno le cose, vede? Se insegue quel Goumier si ritroverà sulla pancia in cinquanta iarde. Ma se segue me (con un ghigno selvaggio) vedrà un po’ di tedeschi morti.

 Tenente: Ha bevuto, sergente?

Sergente: No, non ho bevuto. Se l’avessi fatto, me la sarei svignata da questa guerra e mi sarei infilato in qualche puttanaio di Napoli. Ma finché sono qui, ho intenzione di fare la cosa giusta e far fuori i nemici non appena mi si presenta l’occasione.

Tenente: Sull’attenti, sergente, e parli da soldato.

Sergente: Sei proprio matto, burbetta. Che c’entra stare sull’attenti con la guerra? Da dove vengo io se stai sull’attenti ti fan saltare le cervella.

Tenente: Sergente, sto cercando di dirle che ha passato i limiti da un pezzo. E minacciare di uccidere i prigionieri non farà che peggiorare le cose.

Sergente: Come sarebbe a dire “minacciare”? – Io li ammazzo proprio ‘sti bastardi. Ci hanno sparato tutta la notte. Mi ammazzano i miei, nessuno dorme, e stiamo nel fango fino al culo. Dobbiamo finirla ‘sta cazzo di guerra. Dobbiamo farli saltare in aria tutti. Farli a fettine.

Se ne stanno lì in quell’abbazia del cazzo, a guardarci le tonsille, e a dire ai loro fucili “hey, tsch’è un bel tschesto di ameRikani da poRtaRe in Regalo al pap-pa, ja! Lui è un nostRo freund, ditsche ke ziamo i benvenuti – anke ze noi non ziamo kwi, zembra ke ziamo kwi, ma non ziamo kwi. E dobbiamo pRotettscheRe un zakko di Roba, spetschalmente kwadRi ke valgono milioooni.”

Tenente: Tutte fantasie, sergente: son stato qui a guardare tutto il giorno e non ho visto alcun segno di quelli che secondo lei sarebbero tedeschi nell’abbazia.

Sergente: Stronzate! Indica con la sua mitraglietta i tedeschi, che si tirano indietro. Dodici anni sono stato in questo esercito del cazzo. E dopo tutto ‘sto tempo che gli ho dedicato, mi è rimasto solo un desiderio: voglio crepare scopando.

Tenente: Ascolti bene, sergente: lei sa perfettamente ciò che dice la Convenzione di Ginevra riguardo al trattamento dei prigionieri. Deve permettere loro di arrendersi, e trattarli bene e portarli fuori dalla zona dei combattimenti il più in fretta possibile. Se non lo fa, commette un crimine, come sta facendo adesso, per non parlare delle sue intenzioni.

 

Sergente: L’hai detto, tenente. Sparisci, allora, e lasciami proseguire nella mia piccola missione personale. Agita l’arma verso i prigionieri per spingerli verso la seconda fenditura.

Prigioniero tedesco: quello dall’aria di sfida e che ha seguito con attenzione la lite e ora urla allarmato. Vuole ucciderci! Non è giusto!

Sergente: Senti, senti, ‘st’infido bastardo. Ha capito tutto quello che ci siamo detti. (Leva l’arma con fare minaccioso.)

Tenente: Fermo, sergente!

Sergente: Provaci tu, a fermarmi.

Tenente: E’ in arresto.

Sergente: Fai il duro, eh? Sei nei guai ancora più di me, visto che proteggi il nemico, lasciando che i nostri ragazzi vengano ammazzati da un branco di assassini protetti dal papa e da quei cazzoni dei nostri generali.

 Tenente: Basta, ora. Ho il diritto di spararle per disobbedienza agli ordini dati sul campo di battaglia.

Sergente, è avvisato!

Sergente: Niente da fare. Su, forza, crucchi bastardi. Il tenente pregherà per voi.

Li spinge in avanti, verso la fenditura sinistra. Come questi si muovono, con riluttanza, lui alza freddamente la mitraglietta e inizia a sparargli nella schiena. Il tenente, inorridito, estrae la sua pistola automatica e urla "Fermo! Fermo!”, e poi gli spara. Il sergente  cadendo gira la sua mitraglietta ancora in funzione verso il tenente, che cade e muore.

Il sergente striscia, vivo a malapena, lasciando una scia di sangue e boccheggiando, in direzione del tenente.  In quel momento si sente un rombo di aeroplani, che aumentano sempre di più, come l’intensità del rombo, fino a che tutta la sala non è immersa nel suono. Il sergente, morente, guarda in alto verso di loro, gli fa un cenno e poi crolla. L’artiglieria riprende a sparare con ancor più forza di prima, riempiendo l’aria con i fischi delle granate.

 Da dietro la fenditura destra, ricompare silenziosamente il marocchino. Guarda i cadaveri, poi va da quello del sergente e ne stacca l’elmetto con un calcio sprezzante. Nessuna reazione. Fruga nelle sue tasche, estraendone la solita confusione fatta di soldi, sigarette, un mazzo di carte, una penna... Poi alza la testa, si guarda in giro, estrae il suo coltello e taglia deliberatamente l’orecchio destro del sergente, infilandoselo nella sacca del pronto soccorso. Pulisce velocemente il pugnale sui pantaloni del cadavere, si avvolge ancor più nell’abito tradizionale e lascia furtivamente la scena attraverso la fenditura.

Il rumore della battaglia nel frattempo è cresciuto fino a divenire insopportabile per il pubblico, ma ora inizia decrescere e a svanire fino a diventare un sottofondo, un miserere quasi musicale, nel quale i sibili, il ronzio e le esplosioni si fondono in un suono umanoide sintetizzato accompagnato da percussioni attutite, mano a mano che le luci calano ed il sipario scende.

 


SIPARIO


FINIS


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